20 maggio 2024

Paolo Fresu ha ricevuto il Premio SIAE/La Milanesiana da Paolo Franchini

Ieri l'inaugurazione del Festival ideato da Elisabetta Sgarbi, quest’anno intitolato alla “Timidezza”, si è svolta al Piccolo Teatro Paolo Grassi di Milano
Paolo Fresu

Paolo Fresu

Ieri sera Paolo Fresu ha ricevuto il Premio SIAE/La Milanesiana: nel corso dell’inaugurazione del Festival ideato da Elisabetta Sgarbi quest’anno intitolato alla “Timidezza”, Paolo Franchini, Consigliere di Gestione SIAE e Presidente FEM, ha consegnato il premio sul palco del Piccolo Teatro Paolo Grassi di Milano.

Classe 1961, Fresu non ha certamente bisogno di presentazioni. Ma qualche indicazione biografica può dare l’idea di quanto la sua attività sappia spaziare nel mondo delle sette note tanto quanto nel mondo fisico. Infatti, non solo ha all’attivo oltre 450 dischi, ma con oltre 3500 concerti è stato in tutti e cinque i continenti, nei quali ha conquistato decine di prestigiosi riconoscimenti. Anche la sua quotidianità non è meno articolata: si suddivide tra Bologna, Parigi e Berchidda, nella provincia sassarese che gli ha dato i natali e che lo ha iniziato alla musica, e dove dirige il festival Time in jazz, che da 37 anni porta in agosto nell’entroterra sardo incredibili artisti, convogliando migliaia di persone in un paese che conta circa tremila abitanti.

Figlio di un pastore che gli ha insegnato la sacralità del silenzio, Fresu ha iniziato a studiare la tromba a 11 anni nella banda musicale del paese. Si diplomerà nel 1984 presso il Conservatorio di Cagliari con il M° Enzo Morandini. Nello stesso momento, quindi quarant’anni fa, si iscrive alla SIAE, che ieri gli ha consegnato questo premio in nome – anche - di una conoscenza fatta di anni di collaborazioni in progetti ambiziosi e non facili, che hanno al centro della loro vocazione la musica, certo, ma anche l’impegno sociale e solidale.

La motivazione del Premio tenta di sintetizzarne alcuni: Come SIAE abbiamo iniziato a collaborare con Paolo Fresu sin dalla nascita del progetto “Il Jazz Italiano per L'Aquila”. Sono passati molti anni e abbiamo condiviso con Paolo e con l’Associazione Midj tante iniziative legate al mondo della musica, del jazz in particolare, al suo potere aggregante e alla sua forza sociale e ricostruttiva. Il jazz, proprio come il tema di quest'anno, sa essere timido, placido, ma anche impetuoso, travolgente. L’amore e la dedizione con cui Fresu porta avanti questi progetti, tra cui quello legato alla valorizzazione del repertorio tradizionale sardo, è pari solo alla sua indiscussa bravura come musicista e come autore. Un autore che rappresenta l’eccellenza musicale italiana anche all’estero.

Maestro, ci racconta il suo rapporto con la SIAE?

Il mio rapporto con la SIAE non è stato semplicemente quello di essere un iscritto da ormai 40 anni: abbiamo collaborato a molti progetti e insieme ci siamo rimboccati le maniche per fare un importante lavoro di cittadinanza attiva. Gli artisti devono mettersi a disposizione di un progetto più complesso che SIAE fa sulla musica e che implica non solamente il coinvolgimento di ognuno nella difesa diritto d'autore ma un'architettura che parte dal basso per costruire dei palazzi molto alti. Da questo punto di vista SIAE è sempre stata, per usare il suo slogan, dalla nostra parte.

Abbiamo avviato un’importante discussione prendendo spunto dalla Sacem, la consorella francese di SIAE, che riconosce il diritto all’improvvisazione in una maniera un po’ diversa da quella italiana. La battaglia era far riconoscere una musica che fonda la sua filosofia sull'improvvisazione e ovviamente far riconoscere la relativa tipologia di diritto, sapendo che è una materia difficile da trattare. Il lavoro che abbiamo fatto, anche con Ada Montellanico in seno alla Federazione Nazionale Il Jazz Italiano e con la collaborazione di Midj (l’associazione dei musicisti di jazz italiano), ha cementato il rapporto con la SIAE e insieme abbiamo tessuto una tela solida e importante. Non solo nello specifico per il mondo del Jazz, perché il discorso riguarda tutte le categorie autorali, posto che i concerti di jazz ormai fanno numeri importanti, come si legge ogni anno nel Rapporto SIAE, numeri che spesso non siamo coscienti di collezionare.

Essendo stato l’ideatore, primo promotore e Presidente della Federazione ho seguito per 15 anni il percorso del jazz italiano, e il dialogo con la SIAE è diventato sempre più serrato. Ci siamo visti, incontrati, scritti proprio per capire quanto la nostra musica avesse un posto di rilievo nella produzione autorale italiana.

Insieme siamo partiti per il festival jazz a L’Aquila, negli anni successivi al terremoto del 2009.

Quando dieci anni fa è nato Il jazz italiano per le terre del sisma, siamo andati a bussare alla porta della SIAE perché ritenevamo che dovesse in qualche modo essere presente: la Società ha immediatamente riconosciuto l'importanza del progetto e quindi non solo ci ha finanziato ma è sempre stata estremamente presente. Ricordo la prima edizione, eravamo seduti in un bar e c’erano anche Gaetano Blandini e Filippo Sugar (allora Direttore Generale e Presidente SIAE) e guardavamo questa folla immensa di persone. Fu una grandissima emozione che SIAE ci ha permesso di far crescere col tempo. Insieme abbiamo fatto tante cose, dal Time in Jazz di Berchidda alla Casa del Jazz, al progetto AIR ancora con Midj, un pensiero che si è concretizzato e che va avanti nel tempo.

Quando e quanto è cambiata in Italia la fruizione del jazz?

Alla fine degli anni Ottanta abbiamo superato una dipendenza che all’origine era più o meno totale per gli Stati Uniti. Non è una critica, al contrario: i miei musicisti di riferimento restano sempre Miles Davies e Chet Baker, ma c’è stato il momento dell’apprendimento di questo idioma e dovevamo necessariamente riferirci ad un linguaggio che era di oltreoceano. Dal punto di vista repertoriale c’erano pochissimi autori in Italia che si occupavano di jazz. C’erano autori straordinari come Carlo Alberto Rossi, Gino Paoli e Bruno Martino: scrivevano canzoni così belle che i musicisti di jazz hanno saccheggiato. Lì ci siamo resi conto di quanto la musica italiana fosse grande. Guardavamo sempre a Cole Porter e a Henry Mancini, ma quando i musicisti americani hanno iniziato a utilizzare Estate di Bruno Martino abbiamo capito che anche noi avevamo degli standard straordinari, che fino ad allora non avevamo visto con gli occhi giusti.

Abbiamo preso coscienza di una nuova relazione con il jazz e iniziato a capire che anche quello che noi abbiamo portato dall’Europa, cioè l'Opera, il repertorio partenopeo, la musica del Mediterraneo, ha contribuito ad arricchire una musica straordinaria che effettivamente ha cambiato il Novecento.

Abbiamo capito che la nostra musica, le nostre radici così ricche e così forti, potevano entrare nel jazz, e guardandoci intorno abbiamo iniziato anche noi a lavorare sui materiali del cantautorato italiano. Penso alla scuola genovese, a Bindi, Paoli, De André, meravigliosi esempi tra i mille possibili che ci hanno portato a usare i nostri repertori, a registrare cose che non erano più solamente quelle degli standard americani ma che venivano dalle nostre terre.

Comunque, penso che il successo del jazz in Italia derivi proprio dal fatto che mentre negli anni Settanta questa musica era diventata estremamente elitaria e un po’ anche intellettuale (parlo del periodo del free jazz, quando era musica della rivolta e aveva anche una forte valenza politica), alla fine degli anni ‘80 ha trovato una dimensione popolare senza perdere la sua natura. Resta una musica di nicchia ma oggi ha sicuramente maggior seguito. C’è una grande produzione, una quantità straordinaria di giovani bravissimi, nei conservatori ormai da più di vent'anni il jazz fa parte del programma didattico, su internet si trovano i tutorial. Se prima erano centinaia di persone oggi sono migliaia, basti considerare che fino a quando io sono stato il direttore di Jazz italiano per le terre del sisma, quindi parlo di almeno 5 anni, sono passati a L’Aquila circa 3500 musicisti, che oggi rappresentano solo una parte della grande famiglia del jazz italiano. È enormemente cresciuta la qualità ma purtroppo l’offerta non corrisponde alla domanda e molti di questi artisti non hanno l'opportunità di lavorare e di farsi sentire. 

Cosa significa per lei questo premio?

I premi sono tutti importanti, ma quando sono dati col cuore sono una occasione per spronarci a fare sempre meglio. Sarebbe scorretto dire che non abbiamo bisogno di gratificazioni in generale, ma ricevere questo premio ha un doppio valore. Intanto l’ho ricevuto dalla SIAE, che rappresenta il mondo della musica della musica italiana e appartiene al nostro collettivo, ha una molteplicità di chiavi che sono profondamente legate al nostro essere sotto il profilo della creazione, dell’intelletto, della visione e ovviamente anche di un riscontro economico e lavorativo. In più questo premio mi è stato consegnato in seno a una manifestazione importante come La Milanesiana, che da circa 10 anni per me è una tappa “obbligata” a cui tengo molto.

Che ne pensa del tema di quest’anno, La timidezza?

L’idea di un tema in un festival mi piace perché offre l'opportunità di approfondire e di riflettere, e qui torniamo al valore politico della musica. I temi della Milanesiana sono sensibili, importanti e mai riduttivi. La timidezza permette di andare in mille direzioni diverse. Personalmente mi rappresenta molto perché io sono una persona introversa. Certo, oggi parlo ovviamente, soprattutto durante le interviste, però sono un sardo autentico, mio papà faceva il pastore, in Sardegna il concetto di silenzio è sacro.

Anche per Time in Jazz scelgo un tema. Quest'anno sarà A love supreme e prende spunto da un disco di John Coltrane degli anni ‘60. Parlare di amore supremo oggi, in tempo di conflitti e muri che si costruiscono e della paura verso l’altro, è importante, perché l’amore supremo travalica le religioni e le società. 

Il jazz è timido?

Il jazz è tutto. Può essere introverso ed estroverso, può essere una musica gridata o sussurrata, assumere delle colorazioni pastellate o in bianco e nero. Faccio sempre l'esempio di tre musicisti: uno è Chet Baker, che cantava con un filo di voce e che aveva un suono così incredibilmente intimo, esile; poi Dizzy Gillespie, che si era addirittura fatto costruire una tromba periscopica con una campana verso l'alto, perché era un estroverso pazzesco e aveva bisogno di arrivare fino all’ultima persona che era nella sala da concerto; infine Miles Davis con il suo suono scuro, materico che suonava verso la terra, quasi che non volesse suonare per il pubblico ma solo per se stesso e per i propri piedi. Già questi tre musicisti rappresentano la caleidoscopicità di questa musica che non è definibile. La parola “jazz” ha quattro lettere, è troppo corta per poter in qualche modo fotografare la storia di questa musica che al suo interno contiene tutto. Ognuno la declina secondo la propria personalità e i troppi i propri bisogni e il pubblico la raccoglie secondo la sua diversità.

 

La foto è di Roberto Cifarelli

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