03 settembre 2023

Venezia80. Ad Alessandro Roia il Premio SIAE al Talento Creativo

L'attore romano è al debutto come regista e sceneggiatore. "Questo premio è un balsamo per il mio cuore"
Alessandro Roia - foto di Luca Pesce

Alessandro Roia - foto di Luca Pesce

Alessandro Roia risponde al telefono mentre passeggia al Lido. Il suo film d’esordio, “Con la grazia di un dio”, sarà proiettato domani alle 21 in Sala Laguna.

L’attore, divenuto celebre nel ruolo del Dandi nella serie tv Romanzo criminale di Stefano Sollima e protagonista di pellicole come Song’e Napule dei Manetti Bros, I più grandi di tutti di Carlo Virzì (ruolo con cui è stato candidato al Nastro d’argento e al Globo d’oro come migliore attore protagonista) e con il recente Diabolik, riceve oggi il Premio SIAE al Talento Creativo in Sala Perla per il suo debutto come regista e sceneggiatore.

Cosa prova aggirandosi per Venezia nelle vesti di autore?

Mi sento molto tranquillo. Probabilmente anche l’età (45 anni, ndr) con cui affronto questa nuova esperienza mi aiuta. Non ho un’aspettativa enorme, sono solo contento e curioso. Sarei falso a dire delle cose che non provo. Certo sono emozionato a parlare del film perché non sono abituato, ma sono tranquillo e rilassato, consapevole che ci saranno sia pregiudizi che entusiasmi, ma mi sto godendo anche questo percepito.

Questa nel cinema è una svolta definitiva o un’incursione per poi riprendere i panni dell’attore?

La verità è che ci ho messo così tanto tempo per arrivare qui che vorrei rimanere focalizzato su questo perché per me è una trasmigrazione, una trasformazione. Mi sono divertito tanto a fare questo film, non mi bastava più apparire, volevo qualcosa di più coinvolgente… E sto già scrivendo il secondo, ho alcuni progetti che vorrei portare avanti, ma non dipende solo da me. O invece sì: è una questione di volontà.

Da quanto pensava a passare dietro la macchina da presa?

Ce l’avevo dentro da tanto ma sono lento e ci ho messo un po’ a capire e a identificare questa sensazione. Non è stata una voglia passeggera, ma anche una consapevolezza come fruitore del cinema. Apprendere il cinema attraverso il cinema è stato un passaggio fondamentale.

Registi di riferimento e film di culto?

Tantissimi! Ti circondi di persone che ne sanno, hai continui stimoli, devi continuare a essere curioso e avere un occhio voyeuristico sulle cose. Non ce la faccio a dire quali sono i riferimenti, non sono capace. Succede sempre che li dico e poi penso “e quell’altro?”. Amo spaziare, da Rossellini a Pasolini fino ai contemporanei passando per Bertolucci e Dario Argento e al cinema asiatico. Poi che fai: Haneke o Guadagnino non li nomini? E Fellini? Divento pazzo.

Entriamo nel vivo del film. Prima di tutto, ci spiega il titolo?

Il dio a cui si riferisce è una divinità, non il Dio cristiano. È un dio sfuggente che, come tutti gli dèi, non ha pietà, uccide con grazia, determina con una sorta di leggerezza il destino degli altri. Agisce nella realtà senza esserne toccato, in maniera brutale.

Come mai ha scelto Genova come set?

Perché mentre scrivevamo cercavo una città che corrispondesse a un sentimento che volevo narrare. Un non-luogo tra Nordafrica ed Europa. Non mi serviva a livello di cronaca ma di personaggio, Genova è un personaggio. L’idea è stata del produttore, Massimo Di Rocco, e devo dire che aveva ragione lui. Poi l’abbiamo trasformata, l’abbiamo resa post-punk con i neon.

Il film parla di un ritorno: Luca (Tommaso Ragno) torna a Genova dopo venticinque anni per il funerale del migliore amico di gioventù. I compagni di un tempo sembrano tutti convinti che quella morte sia l’esito scontato di una vita di eccessi. Tutti, tranne Luca, che vuole vederci chiaro. C’è qualcosa di autobiografico in questo film?

Di realmente autobiografico poco, ma di una biografia che parte da istinti onirici tanto. Ho avuto un momento in cui un amico ha avuto un problema con delle persone non proprio a modo e mi sono spaventato, ero in ansia, e facevo questi sogni in cui lui veniva ucciso e io lo vendicavo. Sono partito da questo e poi ho lavorato nel noir come genere e sull’aspetto più psicologico, sulla profondità di certi luoghi oscuri dell’essere umano.

I protagonisti – interpretati da Maya Sansa, Sergio Romano, Ahmed Hafiene, Roberta Mattei e Aldo Ottobrino – sono un gruppo di persone “nel mezzo del cammin di loro vita”: c’è anche un discorso generazionale intrecciato alla storia?

Mi sono reso conto di essere anagraficamente a metà tra i giovani e questi personaggi che hanno dieci anni più di me. I giovani pensano che quelli siano vecchi, ma quelli si sentono ancora giovani: del resto, passare da 20 a 50 è un battito d’ali. Noi per la gioventù siamo dei fantasmi, siamo dei boomer, ma non cambia nulla nella percezione del tempo, non cambia quello che siamo. Quello che eravamo a vent’anni è molto presente in noi che ne abbiamo (quasi) cinquanta, è solo una questione di percezione sociale. Non è detto che a cinquanta arrivi la saggezza, e io volevo proprio parlare di questo nascondiglio in cui ci si rifugia, indagare questo sommerso.

Come si è trovato nel lavoro di scrittura? 

“Con la grazia di un dio” non è un film di parola, i dialoghi sono scarni, è una sceneggiatura rigorosa. Ivano Fachin (il coautore, ndr) ha preso la mia storia e mi ha fatto una proposta. Ho capito che era onesta rispetto a quello che volevo raccontare e piano piano, insieme, abbiamo costruito, distrutto e ricomposto. Il lavoro è durato un paio d’anni. Per me la sceneggiatura è importante, ma per quello che è il mio modo di pensare le cose devo lasciare la porta del set aperta. Anche il tempo passato a Genova, il sottosuolo, quello che la città regalava ha influenzato il risultato finale.

Come mai ha scelto Tommaso Ragno come protagonista?

Perché penso che in quella faccia d’età e con quell’estetica, quella sua stranezza e peculiarità non ce n’erano, e poi volevo un protagonista che dobbiamo seguire, non per cui dobbiamo fare il tifo o che ci strizza l’occhio. Finché non finisce il film dobbiamo sentire un distacco, anche empatico, ed è questo che gli ho chiesto, è questo che lui ha trasferito in Luca. 

In futuro vorrebbe dirigere se stesso?

No, mai. E non vorrei perché come idea non mi piace e non mi fido di chi lo fa, possono farlo solo i grandissimi. Per me, Alessandro, è impossibile, non sarei in grado. Sono consapevole dei miei limiti.

Cosa prova ricevendo il premio SIAE?

Sono veramente onorato e colpito. È un balsamo per il mio cuore: in un momento così, in cui fai un salto, sentire immediatamente che c’è qualcuno che sta dalla tua parte e lo conferma in maniera così chiara e diretta è un dono. Sono abituato a essere riconoscente: nulla va dato per scontato e nulla avviene per caso, bisogna godersi i momenti speciali, e per questo ringrazio tutti coloro che hanno deciso di darmi questo riconoscimento, perché è qualcosa di completamente inaspettato e quindi più gustoso.

 

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