02 settembre 2023

Intervista a Luca Guadagnino, vincitore del Premio SIAE Andrea Purgatori

Venezia è la mia casa, SIAE un luogo di magnifica appartenenza
Luca Guadagnino - Foto di Giulio Ghirardi

Luca Guadagnino - Foto di Giulio Ghirardi

Venezia, il Cinema e Luca Guadagnino. Regista, sceneggiatore e produttore, Guadagnino (nato a Palermo nel 1971) ha debuttato proprio alla Mostra del Cinema nel 1999 con The protagonists, suo esordio alla regia.

Dopo Bones and all, con cui si è aggiudicato il Leone d’Argento 2022, torna al Lido come produttore e per ricevere oggi alle Giornate degli Autori il premio che nella scorsa edizione era stato consegnato a Gianni Amelio, e prima di lui a Marco Bellocchio e a Ferzan Ozpetek.

Cosa può raccontarci del suo debutto veneziano?

The protagonists fu un battesimo importante. Fu presentato in Sala Grande per la sezione Nuovi Territori nel 1999 e fu fischiatissimo. Per me fu un momento di “risveglio alla realtà” perché quando fai un film sei sempre fiero di te stesso e pensi di essere il più bravo di tutti - o almeno questo era il mio atteggiamento - poi quando presenti l'opera di fronte a un pubblico e reagisce in un modo che non hai previsto, quella reazione, in questo caso molto negativa, diventa una bellissima occasione per ripensare te stesso. 

Era, o voleva essere, un film sperimentale, ispirato a Looking for Richard di Al Pacino (Riccardo III - Un uomo, un re, 1996). Al Pacino seguiva delle tracce per capire il significato dell’opera shakespeariana mentre io facevo un’operazione analoga cercando di capire la verità di un delitto di cronaca avvenuto a Londra nei primi anni Novanta. 

Anche se il film non è riuscito per niente, gli sono legato per evidenti ragioni biografiche.

Chiamami col tuo nome, candidato all’Oscar, è stato il titolo della notorietà (2017), ma prima ci sono stati, per citarne alcuni, Io sono l'amore (2009, candidato ai Golden Globe e ai Bafta), A Bigger Splash (2015) fino a Bones and all, tratto dal romanzo di Camille De Angelis. C’è un lavoro al quale è più affezionato?

Sono legato più che altro alle persone con cui lavoro, che sono state con me in tutti gli anni in cui ho fatto questo mestiere. Se mi guardo indietro devo dire che il mio legame più profondo è con Fernanda Perez, che non solo è un’amica ma una collaboratrice fondamentale. Abbiamo iniziato questo viaggio insieme anche con Claudio Gioè, un altro dei miei amici cari, e io e Fernanda - che è una make up artist - non abbiamo mai smesso di lavorare insieme dal ‘94 fino a ieri, quando abbiamo finito le riprese di Queer. Trent’anni di vita, di amicizia e di lavoro. 

Quello con i miei collaboratori è un lavoro per me fondamentale: la mia vocazione è permettere alle persone con cui collaboro di dare il massimo e di proteggere la loro visione in modo che tutti insieme compartecipiamo per creare qualcosa.

In passato ha diretto anche videoclip per Elisa, Paola & Chiara, Irene Grandi, Planet Funk, Paola Turci… Si è divertito?

Ho lavorato nel mondo dei videoclip da 2000 al 2006, ma quella è una carriera diversa, non faccio più videoclip da molto tempo. A parte il ritorno con gli amici Colapesce e Dimartino: quando ci siamo trovati a mangiare a tavola a casa mia e mi hanno proposto di girare il videoclip di Toy Boy insieme con Ornella Vanoni ho accettato ma più come occasione di amicizia che come pratica professionale, per il piacere assoluto di far parte di quella cosa. 

Lei si è laureato nel 1994 con una tesi su Jonathan Demme. Cosa la affascinava della sua poetica registica?

Ho scoperto Demme guardando Something wild (Qualcosa di travolgente, 1986), con Melanie Griffith e Jeff Daniels: un capolavoro assoluto. Io sono un cinefilo e guardo il cinema con interesse profondo e sistematico da quando sono ragazzino; da quel film capii che quella era la personalità di un cineasta esplosivo, sovversivo, che sapeva utilizzare il cinema come una arma contundente e che cercava col suo cinema di mettere in atto una profonda critica del reale senza però dimenticarsi che era appunto un racconto di natura immaginifica e che doveva intrattenere in maniera profonda lo spettatore. Poi ho visto tutta la sua filmografia da Il segno degli Hannan, Melvin e Hannan e Swing Shift e ho iniziato ad aspettare avidamente i nuovi, come il capolavoro assoluto, Il silenzio degli innocenti, e Philadelphia.

Demme è stato un grande regista, ha saputo creare forme di cinema spiazzanti e sorprendenti, che ribaltavano i canoni della visione di chi stava guardando. Ho avuto anche il privilegio di conoscerlo e conoscere in lui un uomo straordinario, e il suo insegnamento ancora oggi mi accompagna. Quando mi sono laureato per me era istintivo andare con lui. Era un grande bertolucciano, un giorno scriverò un libro su di lui.

A questo proposito, c'è un regista o un direttore della fotografia che l’hanno ispirata?

Bertolucci è uno dei miei mentori ideali (Guadagnino ha realizzato con Walter Fasano il documentario Bertolucci on Bertolucci, presentato a Venezia nel 2013, ndr), ma ci sono tanti registi che amo, come Nagisa Ōshima, João César Monteiro, Catherine Breillat.

La fotografia è una passione profonda che ho. Ci sono stati enormi direttori della fotografia: all’impronta mi viene da pensare al lavoro di Vilmos Zsigmond, un gigante cui spesso torno con la testa, e il grandissimo Sayombhu Mukdeeprom, con cui ho fatto quattro film, un suo autentico erede. 

Prossimamente in sala?

Nell’aprile 2024 uscirà Challengers e ho appena finito le riprese di Queer, tratto dal romanzo di William Burroughs con Daniel Craig e Drew Starkey.

Dall’esordio del 1999 a oggi: cosa ha significato per lei Venezia?

È stata una casa importante cui ho cominciato ad appartenere da giovanissimo e della quale mi sento veramente membro di appartenenza. Qui si sono succedute visioni straordinarie, ho avuto il privilegio di presentare film in concorso in varie sezioni, presenterò quest’anno due lavori che produco (Enea di Pietro Castellitto e The Meatseller di Margherita Giusti, ndr). Inoltre, qui ho avuto il privilegio di far parte della giuria presieduta da Quentin Tarantino e l'anno scorso ho vinto un premio che non avrei mai pensato di poter vincere, il Leone d’Argento con Bones and all.

Una grande emozione…

Grandissima, anche perché quando ho ricevuto il premio ho pensato alla libertà che mi concedo nel fare il mio mestiere, non mi lascio guidare da ragioni di natura finanziaria o produttiva, né statale o di censura. Bones and all è un film che secondo certe regole di mercato non si sarebbe mai potuto fare e invece l’ho fatto con una grande libertà, appunto. E quando ho preso il premio l’ho dedicato ad alcuni cineasti iraniani che erano in galera in quel momento; alcuni poi sono stati liberati, altri imprigionati.

Mi sento di dedicare ai colleghi che non godono della “libertà di poter fare” anche questo importante premio intitolato a un grande giornalista e sceneggiatore come Andrea Purgatori, che oggi SIAE mi fa l’onore di consegnarmi.

Ricorda quali fossero le sue emozioni quando si è iscritto in SIAE?

SIAE è un nome evocativissimo, rappresenta un’appartenenza magnifica. Non mi piacciono i club né le società; non sono una persona che ama appartenere in alcun modo, desidero essere libero. Eppure, appartenere alla SIAE mi fa sentire molto forte perché rappresenta un luogo, virtuale ma non solo, dove ci si riunisce nel nome dell'autorialità e dell’artisticità, perché coinvolge registi, sceneggiatori, soggettisti, autori musicali. Io sono affascinato dagli autori e dagli artisti e far parte di una Società che li tutela mi rende felice.

 

 

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